Ultimamente ho un po’ perso la vena creativa e non ho scritto molto. Scrivere è un’attività umana come tante altre e risente ugualmente degli effetti positivi e negativi di eventi che influenzano i pensieri, le emozioni, le esistenze. Talvolta piccoli avvenimenti hanno un impatto cruciale, come il sassolino tirato dal cavalcavia che fatalmente entra in collisione proprio con quel punto del tuo parabrezza che manda in mille pezzi l’intero cristallo.
Per le automobili ci sono assicurazioni e carrozzieri, ma per l’emotività shakerata e i sogni stropicciati che cosa si deve fare? Proprio a luglio di un anno fa qualcosa è cambiato, come recita il titolo di un gran bel film: ho di nuovo dovuto prendere atto del fatto che lo stile dell’autore piace principalmente a colui che ci scrive – con quello stile, il fatto che chi legge apprezzi e approvi è del tutto opzionale.
Mi ricordo che in quarta elementare ho portato avanti una battaglia serrata a difesa dell’uso – anche generoso – delle parentesi, la mia maestra di italiano non capiva la mia urgenza di incisi. Dico io, come si fa a conciliare il pensiero abbondante con l’esigenza di sintesi data dall’attenzione limitata dall’interlocutore, se non con il compromesso dell’inciso? Al ginnasio è stata la volta dell’abuso di flusso di coscienza, un punto fermo ogni due parole. Oppure mai. Avevo letto Joyce.
Poi è arrivato il sonoro quattro allo scritto della maturità classica, non si iniziano le frasi con le congiunzioni avversative. Ma ammettiamolo, ne vengono fuori periodi di un certo impatto, il ritmo sia fa moderno. E poi Stefano Benni lo fa. A seguire, ecco gli scimmiottamenti di antilingua senza i quali gli esami di Giurisprudenza scordati pure di passarli al primo colpo. Pensavo che con la seconda laurea in Comunicazione Interculturale avrei vinto facile perché, devo essere onesta, attribuivo un peso maggiore alla parte (inter)culturale rispetto a quella di comunicazione, come a dire: più contenuti e meno forma; invece dalla forma non si scappa, tutto ha un suo codice, specialmente quando c’entra l’interazione con le altre persone. E il rispetto del codice (anche volutamente decodificato, a prima impressione, come la richiesta di tutearse) non dipende dal gusto: segui il codice perché aderendo ad una convenzione comunicativa, negoziata o imposta che sia, raggiungi un obiettivo (di integrazione, successo, accordo), non perché ti piace. Il codice è codice, mica un influencer.
Ho scoperto che comunicare non è né un’esigenza innata né un’abilità istitintuale venduta insieme al pollice opponibile, ho verificato che il tempo passa ma i difetti dell’accademia – e più in generale dei circoli chiusi – sono duri a morire, ho saggiato le abilità di comunicazione dei comunicatori di professione, ho incontrato diverse persone di buona volontà e piene di contenuti, sperimentato la forza collettiva travolgente della Generazione Z ed infine ho scoperto una quantità immensa di cose nuove e piuttosto interessanti, il vero e unico motivo per cui rifarei tutto da capo. Non sai se iscriverti all’università? Ecco l’unico consiglio che a parer mio funziona: misura la tua curiosità e la tua fame (intellettuale, s’intende. Ops, scusami le ennesime parentesi, maestra Francesca).
Morale della favola, poiché nessun cammino è privo di sassi, anche a questo giro ho beccato un sassolino nella scarpa. Mi si è infilato tra il trillice e il pondulo del piede sinistro, l’ho levato ma sento ancora disagio come se fosse sempre lì. Lische di pesce in gola, sassolini tra le dita dei piedi e svilimento dello stile narrativo: ecco, per me hanno tutti il medesimo effetto, che poi corri a mangiare carne, andare a passeggio solo in macchina, smettere di scrivere.
Mi sono presa un anno sabbatico con questo blog, un anno dedicato all’autocommiserazione. Adesso però bisogna continuare a vivere, perché – parafrasando Yu Hua – finché non muori devi vivere (lo stesso).
Che cosa c’è che ti tira veramente su e ti dà energia anche quando hai un turbamento emotivo? Per me la musica è sempre stata di grande aiuto. Spesso la ascolto quando devo risolvere un problema complesso (succedeva così quando andavo a scuola, succede adesso che scrivo codice). Ho fatto una playlist di canzoni cinesi contemporanee, sono circa sei ore di musica, bastano per un volo a medio raggio, un lungo lungo giro in bici, bastano anche per trovare soluzioni a più o meno qualsiasi problema – se questo è anche il vostro metodo.
Il pop cinese ha delle sue caratteristiche melodiche, ma ho deciso di non farne un mini saggio pieno di paroloni vuoti, l’orecchio sa classificare anche senza teorizzazioni preliminari. Delle tracce che ho messo nella playlist – che sono già a loro volta un’aggregazione di tracce singole – mi piace:
- che si può skippare il singolo brano, capita che qualche pezzo non sia di gradimento.
- che titolo e autore sono ben visibili, chi ha creato i collage è stato molto preciso (c’è la tracklist in sovraimpressione tutto il tempo ed in più mettendo il cursore vicino al punto dove è arrivata la barra di scorrimento del video compare il titolo del pezzo in riproduzione)
- che alcune tracce si trovano anche su Spotify, ma altre sono delle chicche, ad esempio 勇敢爱 Yǒnggǎn ài (in inglese: brave love) che è una delle mie preferite non c’è.
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