Un vecchio libro su uno scaffale della biblioteca, copertina gialla, sulla quarta di copertina il prezzo ancora in lire. Non leggo volentieri i resoconti di viaggio, perché – per dirla con le parole di José Ovejero: i narratori dei propri viaggi, con qualche onorevole eccezione, tendono a imbastire il racconto su una trama fitta di esagerazioni, omissioni e bugie, il cui fine è far apparire il protagonista come in un’incisione di Doré, circondato di abissi senza fondo, mostri in agguato, spaventose tormente. Insomma, la narrativa di viaggio è troppo spesso uno stream su carta del vedo-gente-faccio-cose che va già in onda su tutti i principali social network. Loro si pavoneggiano dei propri luoghi e tu dal divano rosichi.
Però per La Cina per ipocondriaci si può fare un’eccezione, perché è un libro diverso, un libro fuori dal suo genere. Non lo ristampano neanche più, tanto è diverso.
Premesse oneste, troppo oneste
Noi della letteratura italiana siamo abituati ai preamboli auto-giustificativi, le premesse che paraculano un po’ l’opera: mi riferisco a quella cattiva tradizione manzoniana di voler (o dover) sempre trovare uno sponsor di prodotto, perché per tradizione a noi i fatti non bastano mai, ci vogliono soprattutto (buone) parole.
Ovejero da edotto letterato europeo premette: “sono una persona senza radici, infedele al proprio passato, incapace di custodire le assenze. Viaggio spesso spinto da un’assurdità che risulta difficile da condividere: pretendo di trovare me stesso in qualche altro luogo del mondo, come se fossi il personaggio di un racconto di Borges.”
Ecco spiegato il perché del suo narrare, in buona sostanza viaggia e scrive per problemi suoi, è più un Jerome contemporaneo con il gomito del tennista che una Chiara Ferragni in gita. Si può proseguire.
Adesso che mi accingo a scrivere di questo viaggio, mi rendo perfettamente conto che non potrò mai spacciarlo per quello di un romantico avventuriero. È vero che anche a me piacerebbe ogni tanto sembrare un esploratore, un Ulisse (…) ma sono cosciente dei miei limiti e per questo non provo vergogna, o quasi, nel cominciare il racconto del viaggio con la permanenza nell’Università di Nanchino, inizio alquanto borghese e comodo, ma che a me è sembrato un buon modo per avvicinarmi al paese, stabilire punti di riferimento, cominciare a capire lo spazio in cui mi sarei mosso per diverse settimane.” Che cosa dicevo, onesto, no?
Poco viaggio, molta Cina
Cina per ipocondriaci non è tanto descrizione di viaggio, quanto narrazione dell’impatto culturale che ha un viaggio in Cina. Questo è il motivo principale per cui se volete organizzare un viaggio in Cina dovete considerare questo libro una lettura inutile, dal punto di vista pratico, sebbene io vi possa caldamente suggerire di impararne ogni parola a memoria, prima di partire.
“Tra i vari motivi, perché dei viaggi, come della vita in generale, mi interessa più il lato umano di quello sovrumano”
Compendio. Ovvero che cosa c’è e che cosa manca
C’è il viaggio tipico di chi decide di vedere la Cina zaino-in-spalla per la prima volta: Pechino, Xi’an, Guilin, il Buddha di Leshan dai grandi lobi, Kumming; contrattazione sui prezzi, mezzi pubblici, pasti.
Non c’è la noia mortale del descrivere ogni singolo sasso che finisce nelle ruote del proprio mezzo o tutto ciò che si è visto dal finestrino in dodici ore di treno.
C’è un punto di vista tutto occidentale (e retrodatato agli anni ’90) nel vedere le città e le abitudini. Per esempio, di Nanchino, una delle fornaci della Cina, dice:“non si tratta di una povertà pittoresca, ma di trascuratezza da sobborgo periferico” . Non c’è politically correct.
Ci sono vecchie istantanee di Cina, utili o semplicemente divertenti, scenette di un possibile viaggio che sono una buona occasione per spiegare alcuni aspetti più che attuali della vita cinese: prendere un affollato treno in Cina, vedere l’opera di Pechino (e non capirla), utilizzare alcune espressioni di base della lingua cinese (quale il famoso 没有 Méi yǒu che vuol dire tutto, da “è finito mi dispiace” a “ma vattene un po’ a quel paese“), la convivenza di socialismo, capitalismo e confucianesimo (alert: idee dell’autore, che è un viaggiatore libero, non uno statista o un politologo), cene, giardini e loro significati, chiara spiegazione di perché i cinesi sputano per terra. Ancora: la famigerata questione del figlio unico, finalmente illustrata in modo sintetico e senza strumentalizzazioni politiche di mezzo, riflessioni sui piedi delle donne (non solo cinesi).
Che cosa si mangia?
In Cina si mangia tutto. Piatti piccantissimi nel Sichuan, innaffiati da birra Tsingtao: il piccante aiuta a regolare la temperatura corporea nei climi rigidi e la birra in terrazza è buona occasione per spiegare in poche righe come mai la birra cinese è famosa nel mondo. Melanzane, cetrioli con cipolline, patate fritte.
Sul lago Erhai assaggia la carpa, nello Yunnan prova la hot pot o pentola di fuoco/vapore. A casa di un professore di Nanchino gusta pollo con arachidi e spaghetti di riso, tofu con spinaci, carne di maiale soffritta con verdure, un enorme pesce che il suo ospite pulisce esclusivamente con le bacchette.
Cucinare è un lavoro duro, perché in Cina bisogna farlo velocemente e con il wok a temperature molto elevate. Così si conservano le vitamine, la carne si mantiene succosa e le verdure croccanti. E conclude ricordo che i piatti erano squisiti.
Ancora: in visita sulle montagne ne approfitta per spiegarci perché i monaci in origine non erano vegetariani, beggars are not choosers e trova esauriente risposta al famoso quesito: è vero che i cinesi mangiano ogni cosa, basta che si muova?
“Quello che non ci sorprende, non lo vediamo. Quindi, qualsiasi immagine della Cina abbozzata da un occidentale tende a peccare di folklore.”
La citazione migliore
E’ un bel libro, peccato che non lo ristampino più. Va necessariamente cercato in biblioteca oppure rovistando tra le bancarelle di libri usati (ma ne vale la pena!).
Credo che questo autore, in definitiva, non se la tiri abbastanza. Sarà questa mancanza di auto-celebrazione che l’ha condotto fuori dagli scaffali, dentro gli scatoloni dei robivecchi? Come lui stesso afferma:
La bellezza non è mai cosciente di se stessa altrimenti si trasforma in affettazione o vanità.