Uno scrittore cinese molto famoso, in patria e all’estero, che mi impartisce un’importante lezione: prendere i giri di waltzer della vita come un’opportunità e non come una sfiga.
Milano, Biblioteca Sormani. Subito fuori dall’ingresso un signore sorridente e con i capelli un po’ scarmigliati dal vento cerca la sala del Grechetto. Gli sguardi si incrociano per un secondo: è lui Yu Hua, l’autore de La Cina in dieci parole, forse il primo libro che ho letto appena scoperta la mia infatuazione per una cultura lontana dodici ore di volo (con scalo).
La sala conferenza è piena, Yu Hua prende posto vicino alla moderatrice dell’incontro, Alessandra Lavagnino, direttore dell’Istituto Confucio di Milano (uno degli Istituti Confucio), che inizia ricordando quando, ai tempi del suo incarico al consolato, aveva di persona preparato quattro visti per scrittori cinesi in viaggio nel Bel Paese.
Due in particolare erano per Mo Yan – il premio Nobel – e Yu Hua.
Noi uditori senza poltrona, intanto, ci accomodiamo fuori, sul pavimento coperto di velluto rosso, sulle scale, appesi agli altoparlanti come salamandre d’estate. Pare che nessuno si aspettasse il pienone in biblioteca, in nome dell’ospitalità non hanno neanche passato l’aspirapolvere sul tappeto.
La partita di pallone
Yu Hua è gioviale e accomodante, non sembra di stare a sentire la conferenza di uno scrittore: lui racconta storie e così fa anche di fronte alla platea di studenti, intellettuali e curiosi, partendo dal ricordo del suo primo viaggio in Italia, un giro che comprendeva anche Parigi e Venezia, insieme con gli altri tre scrittori cinesi.
Si imbatte per la prima volta in uno sciopero dei treni all’italiana e rimane molto colpito, in Cina pare che non esista un fenomeno di folklore simile.
“Avevamo camminato davvero tanto e le scarpe di Mo Yan erano distrutte, perché erano scarpe cinesi e non italiane! Appena siamo arrivati a Venezia, però, ne ha subito comprato un paio nuovo.
Tutti conoscono le città italiane in Cina, perché il calcio italiano lì è famoso e lo era anche anni fa. Mi ricordo che a Torino ero andato a vedere Juve – Atalanta. Ricordo che aveva vinto la Juve, aveva segnato un calciatore francese. Se non sbaglio Zidane giocava nella Juve in quegli anni.”
Mi stupisce come aggiunga particolari alla sua narrazione, ma di più ancora che esista una parola cinese per tradurre tutto, anche Juve (尤文 | Yóuwén), Atalanta (亚特兰大 | Yàtèlándà) e persino Zidane (齐达内 | Qí dá nèi).
Domande letterarie
Alessandra Lavagnino: Vent’anni fa Yu Hua conosceva solo due mila parole. Aveva interrotto i suoi studi durante la rivoluzione culturale. Oggi non è più così, ma questo non influisce in alcun modo sulla freschezza della sua scrittura.
Yu Hua non si scompone, risponde che sì, chiaramente oggi ne sa molte di più.
Ma è evidente che non sia questo il punto. Mi viene spontanea una riflessione sulla lingua meno democratica – se non la studi non la impari e non la leggi, perché non è alfabetica – e più democratica: con poche parole e un po’ di pratica il cinese si lascia masticare da tutti, chiaro e pragmatico com’è. Non ci sono gerarchie sintattiche tra gli strati sociali e l’ampollosità perifrastica romanza è un puro pleonasmo. Detto senza ironia.
Il suo processo creativo: come funziona?
Yu Hua non scrive tutto d’un fiato, ma un po’ inizia, un po’ viaggia, un po’ continua. Racconta che: “Nel prologo del mio libro Vivere! la persona che cammina nelle campagne sono proprio io. A 23 anni sono andato a raccogliere le storie di campagna, ma al ritorno i miei capi non erano affatto contenti del lavoro svolto. Ma come? Hai raccolto solo queste poche storie? In realtà io stavo in un alberghetto a scrivere le mie storie. Era un incarico lungo, quello che mi era stato affidato, doveva durare due anni. In realtà, io raccolsi storie solo all’ultimo, scelsi un villaggio e andai da cinque o sei anziani a farmi raccontare ciò che sapevano e che avevano vissuto. Non avrei mai potuto stare così tanto tempo senza scrivere le mie storie.
Il mio consiglio: a 23 anni prendi ogni occasione che ti si presenti, ma fai anche ciò che ti piace fare.
Il viaggio giovanile di cui parla Yu Hua prevedeva un lungo giro nelle aree rurali della Cina, durante la rivoluzione culturale. L’alloggio era quello che era, con le pulci nei letti.
“Perciò ogni sera cambiavo letto per testare se ce n’era qualcuno senza. Dopo un po’ di giorni, mi sono reso conto che tutti i letti dell’alberghetto avevano le pulci: in pratica, avevo dato da mangiare a tutte quante. Perciò sono tornato sui miei passi: un letto solo, un solo gruppo di pulci.”
E così fa anche con i libri, nel famoso processo creativo. Dopo un po’ ci ritorna sopra e li finisce.
Molto ironico, no?
Alessandra Lavagnino chiede ancora: Come ha nutrito la sua anima letteraria negli ultimi 20 anni?
Risposte proletarie
Yu Hua risponde: “Durante la rivoluzione culturale c’erano molte opere che non si potevano leggere, erano state ritirate e bruciate. Quindi in quel periodo ciò che sono riuscito a leggere era solo una parte, non sapevo magari come iniziavano o finivano i romanzi oppure ignoravo il nome dell’autore. Che poi, non sapere l’inizio ancora ancora, ma non sapere la fine è proprio una tortura.
Però alla fine devo ringraziare anche per aver vissuto questo tipo di esperienza: ero uno studente delle medie e grazie a questo immaginavo io la fine dei testi.
Fin da ragazzo ho messo all’opera la mia fantasia. Noi scriviamo, ma dobbiamo anche leggere e devo dire che la scelta giusta fu proprio quella di scegliere i grandi classici.
Tanti dei miei romanzi sono stati accettati da riviste letterarie e tanti rifiutati. Allora non c’era il computer, scrivevo a mano; vivevamo in una piccola casa, con un piccolo cortile e il postino lanciava in cortile il manoscritto rifiutato. Quando mio padre sentiva il suono del plico in terra mi diceva eccone un altro. Ma io strappavo le pagine, le rincollavo e rispedivo il plico in un’altra città. E alla fine, piano piano, ce l’ho fatta.
Improvvisamente, nel 1988 iniziai a ricevere molte richieste dalle riviste e le feci vedere a mio padre: ecco, guarda, questo vuol dire che sto diventando famoso. In tutto questo processo, la lettura ha avuto un ruolo davvero importante.
Quando mi rifiutavano le opere ero arrabbiato, magari ne accettavano di qualità inferiore ma anche il rifiuto mi ha aiutato. Ero davvero convinto di aver fatto un buon lavoro, però evidentemente non era ancora al livello adeguato.
Mi sono detto: devo scrivere qualcosa di fenomenale.
Comunque io venivo da un paesino piccolo della Cina e dovevo fare di più. Le case editrici dovevano leggere davvero centinaia di manoscritti, un lavoro stancante, un continuo leggere, anche opere non buone. Così mi sono detto: per forza devo scrivere qualcosa di superlativo, se no non mi leggeranno mai. “
Forse è stato a questo punto che ho capito perché me ne stavo ancora lì, incollata alle casse scricchiolanti, tra una cartaccia e una gomma da masticare sul marmo freddo, con la bocca spalancata e le orecchie pure.
Trovare l’opportunità negli accadimenti: non vedo niente, ma tanto ho un ottimo udito; non ho il posto in prima fila (neanche in ultima), ma è proprio grazie a questo che posso scrivere come un treno ogni parola che sento.
Diventare famosi in Cina
Alessandra Lavagnino spiega che negli anni ’90 Yu Hua è stato un caso letterario molto interessante: in Cina è stato apprezzato soprattutto dopo il rilancio che ha avuto grazie al nuovo cinema cinese, il quale ha raggiunto il pubblico occidentale ed ha poi fatto da cassa di risonanza anche per la fama dell’autore in Cina.
Nel 2000 le sue opere iniziano ad essere famose per conto proprio, ma il film realizzato dal libro Vivere! ha dato una spinta forte alla circolazione delle sue opere in tutto il mondo.
Il primo editore di Yu Hua è stata una rivista letteraria di Shanghai “Raccolte”, di cui all’epoca era direttore lo scrittore Ba Jin, scomparso durante la rivoluzione culturale e poi ricomparso negli anni ’80.
Dice Yu Hua: “oggi le mie opere sono pienamente accettate, allora erano un caso letterario. Grazie al fatto di essere stato pubblicato sulla rivista e da lui, che era equidistante da partito, ambiente letterario e tutto, sono riuscito ad avere fama. Devo ringraziare Ba Jin se ho potuto pubblicare le mie opere, perché allora non era un argomento facile quello trattato in Cronache di un venditore di sangue.
È grazie a lui che noi scrittori di nuova generazione siamo riusciti ad emergere, ho detto a sua figlia quando Ba Jin, ammalato, si trovava in punto di morte.
Quando lui se n’era andato noi avevamo le ali per volare.
Alessandra Lavagnino: oggi c’è una figura come Ba Jin per i giovani scrittori cinesi?
“No, non c’è, ma non ce n’è neanche bisogno. C’è più libertà di scrittura, il cinema è ancora molto controllato ma la letteratura ha più spazio.”
Le opere di Yu Hua sono state tradotte un po’ in tutto il mondo. Persino in Iran, l’autore l’ha scoperto durante un film festival a Pechino. Yu Hua fa un paragone tra il cinema cinese ed il cinema iraniano, dice: “fanno film bellissimi, da noi se ce n’è uno bello all’anno è già tanto.
I registi incolpano il sistema della censura ma io gli rispondo andate un po’ in Iran dove non solo c’è la censura politica ma anche quella religiosa eppure hanno dei film bellissimi.
Non prendetevela con la censura, ma con il vostro talento.
Non è che tutto quello che hanno in testa è far soldi? Sono convinto che se uno ha la volontà e il talento per fare alla fine farà qualcosa e lo farà anche bene.”
Cambiamenti, contraddizioni, numeri.
“I cambiamenti della Cina sono veramente molto veloci. Quest’anno sono 40 anni dall’apertura del periodo di grandi riforme della Cina ed i dati parlano chiaro:
nel 1978 il PIL era 3 miliardi 300 milioni RMB
nel 2017 il PIL era 84 miliardi 896 milioni RMB.
Questo fa capire la velocità di crescita.
Nel 1993 io e mia moglie guardavamo i nostri soldi e ci dicevamo basta abbiamo fatto fortuna. Oggi con quei soldi non ci compreresti neanche casa a Pechino.
In certi negozi in Cina paghi solo con il cellulare. Noi in Cina ci stiamo tutti adeguando, io stesso. Chi l’avrebbe mai detto? 30 anni fa i cinesi quando andavano in giro per lavoro si facevano la taschina per i contanti nelle mutande (per la paura di essere derubati). Magari le donne cercavano altri posti, ma gli uomini non si facevano problemi quando poi li dovevano cercare ed estrarre. Immaginate che cambiamento.”
Rifletto. La Cina va veloce, corre e la direzione è molto chiara. Non per tutti però.
Il Centro per l’informazione sulla rete internet cinese ha dichiarato che nel 2017 i lettori di libri digitali cinesi (registrati cioè su siti di letteratura) erano 352 milioni. Dei 700 milioni di internauti cinesi la metà sono lettori. Lettori, quella razza estintasi in Italia subito dopo la Lontra Sarda Gigante.
A Milano, in piazza Duomo, c’è ancora chi cerca disperatamente di farti avvicinare ad una libreria con un timido Scusa posso farti una domanda, in media quanti libri leggi all’anno, più o meno di 3?
Yu Hua continua: “Cent’anni di solitudine ogni anno in Cina vende migliaia di copie.
Sul sito Dangdang[dot]com i grandi classici sono un terzo dei prodotti più venduti. Stesso dicasi per le opere di fiction. La cosa più importante è come scrivi non di che cosa scrivi.
E c’è anche un altro punto: hai o no fortuna?
La Cina ha abbracciato tantissimo la letteratura straniera. Penso che dagli anni ’80 sia il paese in cui si state sono tradotte più opere in assoluto.
Quando scrivevo non ho pensato molto alla censura. Io scrivevo e basta: però mi stupivo anche che alla fine venissi pubblicato. Veramente negli anni ’80 e ’90 la Cina cambiava di giorno in giorno, si apriva, e anche su questo tema è stato così. Quando iniziavo a scrivere l’argomento era spinoso, ma ora che finivo di scrivere la pressione si era già alleggerita. Però c’è anche da dire che non ho mai preso premi letterari. Allora essere pubblicati era già una gran cosa, essere anche premiati sarebbe stato davvero troppo. E ho avuto anche fortuna.
Chi vince premi in Cina vede davvero il numero delle sue copie schizzare. Però devo dire che per me non è importante davvero.
Nel 1992 Vivere! è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista, nel 1993 come libro. Solo nella prima metà di quest’anno ha venduto un milione 570 mila copie, si prevede tre milioni entro fine anno.
La cosa importante è che nel mio pubblico ci sono tanti lettori giovani, persone nate dopo il 1995. Questo mi fa molto piacere. Anche in Italia ha venduto bene, invece in America le mie opere non sono così ben accolte. Però, in generale, nelle statistiche un’autore straniero che riesce a vendere due mila copie in America ha già l’assicurazione di venir ripubblicato, io sono a tre mila, quindi non mi lamento.
Vivere! a Taiwan ha venduto 90mila copie. A quanto pare è quello che ha venduto di più tra tutte le mie opere. Però in Italia il best seller è comunque La Cina in dieci parole.”
Yu Hua sarà ancora ospite di diverse città italiane fino a metà novembre, vale la pena andare a sentire ciò che ha da raccontare su di sé e sulla Cina.
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