Una mostra, un documentario, un fumetto. Ma prima di tutto, un progetto di due ragazzi molto in gamba, supportato dal Comune di Milano.
Cosa aspettarsi da un libro che racconta la storia dei cinesi a Milano in sole 183 pagine e per giunta a fumetti?
Francamente non ne avevo la minima idea fino a quando non ho iniziato a leggere.
Nel 2017 la pubblicazione di Chinamen non è stata una semplice novità editoriale ‘di nicchia’, ma ha rappresentato un vero e proprio evento in città, supportato da istituzioni forti come il Comune di Milano, che ha sponsorizzato l’iniziativa di ricerca sulla nascita della comunità cinese nel capoluogo lombardo con il progetto “Milano città mondo”, il Mudec, l’Università Statale.
Dopo aver divorato Chinamen in una sera estiva, in due parole direi che sì, ne vale la pena (di leggerlo, di acquistarlo) perché contiene più easter eggs di ciò che si possa ipotizzare solo a giudicare dalla copertina. Ecco alcune sorprese direttamente dalle pagine del libro.
Troppo spesso mi dimentico che in cinese c’è una parola per tutto, si traduce tutto. Un esempio: non esiste in italiano una parola per indicare 浙江 Zhèjiāng la regione dalla quale vengono tanti cinesi italiani, ma in cinese esiste da mezzo secolo una parola per tradurre Abruzzo (Abuluzuo).
I primi cinesi si stabiliscono a Milano in occasione dell’esposizione universale del 1911, dalle parti dell’attuale Chinatown: il primo decesso di un cinese registrato è di un abitante di via Canonica 35, circa vent’anni più tardi.
Sulla faccenda dei nomi, che ci si chiede sempre perché i cinesi abbiano nomi d’elezione italiani, per gli autori di Chianamen, pare che la tradizione sia nata così:
Umberto era arrivato nel 1937. La sua avventura era iniziata al porto di Venezia dove le autorità avevano provato a consegnargli il passaporto di qualcun altro. Ma lui sapeva leggere..
“Questo non è il mio nome! Io mi chiamo Sun Yaoguang e qui c’è scritto.. Umberto!“
Come sosteneva Giambattista Vico, la storia non è altro che un susseguirsi di corsi e ricorsi e tra le pagine di Chinamen si vede chiaramente.
I primi ambulanti cinesi negli anni ’20 commerciano perle false, 假珠 Jiǎ zhū e non piacciono ai vigili né ai commercianti meneghini, ma piacciono molto alle signore della città, assetate di moda a basso prezzo;
Negli anni ’30 arrivano le cravatte da vendere, che parimenti dividono l’opinione pubblica tra ‘mi piace’ e ‘non mi piace’.
Poi arriva la guerra e quando se ne va, il dissenso per i commerci non autorizzati lascia il passo alla voglia di ricostruire.
Cinesi e italiani in quegli anni, dopo l’abolizione delle leggi razziali, tornarono a sposarsi. Stanchi delle sofferenze e delle perdite della guerra, probabilmente queste donne e questi uomini avevano una gran voglia di ricominciare.
Negli anni ’60 alcune pelletterie cinesi crescono a tal punto che riforniscono persino la Standa.
Poco prima dei ’70 viene fondato il primo grande brand ad opera di un italocinese, di ritorno da un viaggio d’affari in Giappone: nasce l’impresa Osama, quella degli UniPosca.
Chinamen parla anche di cibo, anzi di QCina: il 3 ottobre 1962 viene inaugurato il primo ristorante cinese di Milano, La Pagoda, alla presenza dei rappresentanti della Curia ambrosiana e di Dino Buzzati, inviato speciale del Corriere della Sera.
Il ristorante resterà aperto, in via Fabio Filzi, per ben 37 anni.
Il Ristorante la Pagoda nasce dall’unione di Attilia, signora milanese doc e Hu Zhongshan, detto Junsà, marito cinese di Attilia. L’inaugurazione del primo ristorante cinese a Milano, nel 1962, è un giorno memorabile, che resta negli annali.
Non era importante solo per i cinesi. Era altrettanto importante per Milano, per la sua immagine di capitale economica.
Il menu dell’inaugurazione prevedeva 11 portate di carne e di pesce, assolute novità per l’Italia e per le cui materie prime dei piatti tipici i gestori si erano dovuti rivolgere al mercato di import export londinese e parigino. Antipasti di scampi e pezzetti di carne arrotolati ad involtino, marosta con pinne di pescecane, anatra con aromi, carne con bambù, nidi di rondine, frutta cinese.
Sì, Chinamen vale la pena, perché con l’ironia del fumetto riesce a dipingere senza peso le storie di vita quotidiana (cinese e italiana) intessute negli scenari istituzionali e politici italiani di quasi un secolo. Chapeau.